TOM

RICORDARSI DI SÉ

La Liegi-Bastogne-Liegi del 2019 si è appena conclusa. È l'edizione vinta da Jakob Fulgsang, quella con quella sua svirgolata alla Mark Marquez ai meno dieci dal traguardo, in molti se la ricorderanno. È una edizione dura, corsa tutta sotto la pioggia battente e perfino, a tratti, sotto qualche fiocco di neve fradicia. La pioggia era cominciata subito, al mattino. A Liegi sul villaggio di partenza diluviava, eppure Place Saint-Lambert era stracolma di tifosi. Li trovavi ovunque: per strada, sui ponti che attraversano la Mosa, nei bar a fare colazione con un boccale di birra, sui balconi e poi - soprattutto - fuori dagli autobus delle squadre in attesa di vedere i corridori. Le persone stanno lì in piedi accalcate per delle mezz’ore intere ad aspettare i propri beniamini uscire dal bus. Li vedono scendere quei tre gradini quando si avviano per andare a firmare il foglio di partenza e incominciano a urlare e ad alzare le bandiere o la mano, in cui generalmente stringono un taccuino e un pennarello per farsi fare un autografo. “Io tutta quella attesa per un autografo, non la farei mai - ha detto una volta in una intervista Tom Dumoulin. “A dire il vero con il brutto tempo non credo che andrei nemmeno a vedere le corse” aveva aggiunto.

La gara si è appena conclusa ed il gruppo dopo una giornata sotto il diluvio universale è di nuovo a Liegi. Quando incominciano le premiazioni - Jakob Fulsgang primo, Davide Formolo secondo, Max Schachmann terzo - sul rettilineo d’arrivo, posto a cinquanta metri di distanza dalla piazza dove si svolge la cerimonia, i corridori continuano ad arrivare, in ritardo ormai di quasi mezz’ora rispetto ai primi arrivati. A guardarli, togliendo lo sguardo dal palco e buttandolo lì sulla finish line, non sembra la linea d'arrivo di una gara. Gli spettatori dietro le transenne sono quasi tutti andati via, sembra piuttosto la conclusione di una giornata di lavoro, operai che concludono il turno ed escono dalla fabbrica. Arrivano sgranati, in gruppetti di due o tre alla volta che chiacchierano tra loro. Non c’è gioia sul loro volto e a dire il vero non si direbbe nemmeno una particolare stanchezza. Ordinaria amministrazione, questi ragazzi sono preparatissimi. Normalità. In fin dei conti correre in bicicletta, è un lavoro. Duro. Io ho i piedi bagnati fradici. Nel cielo si intravede finalmente qualche squarcio di azzurro e la primavera è pronta ad esplodere, le foglie verde tenero sugli alberi sono lì a dire che l’inverno, anche in Belgio, è definitivamente finito. La campagna del nord si è conclusa, due settimane di stop e poi si comincerà a correre nelle gare a tappe: Tour de Romandie, Tour of California o Giro d’Italia a seconda dei programmi di ciascun corridore. Poi Criterium du Dauphiné, poi il Tour de France, Vuelta, Mondiali, Lombardia, Tour of Guanxi e Giappone per chi ci andrà, insomma il solito. Il ciclismo è una ruota e fa sempre lo stesso giro: allenamenti e corse. Corse e allenamenti. Un professionista gareggia mediamente ogni anno tra le 65 e le 90 giornate. Poi da aggiungere al conto ci sono i giorni di viaggio e di trasferimento. E i training camp. E l’altura. E le visite mediche. E gli impegni con gli sponsor. E per alcuni, la nazionale. È dura essere un corridore professionista oggi, non c’è proprio tempo per nient’altro.

Il bus della Sunweb è parcheggiato giusto dietro quello della Mitchelton-Scott, mi ritrovo per caso in quel corridoio mentre vago nel dopo gara in attesa dei miei compagni di viaggio con cui tra poco, finalmente, rientrerò in hotel. Sono stanco, è stata veramente una giornata lunghissima. Il rumore nell’aria è quello dei generatori che alimentano i bus e quello delle idropulitrici con cui i meccanici stanno lavando le bici. L’odore che sento in cima alle narici è quello del diesel bruciato mischiato a quello del sapone per le stoviglie. Il villaggio è in fermento, si capisce che tutti hanno voglia di andare via, tornare a casa finalmente. A questo punto della giornata anche di spettatori in giro, non ce ne sono quasi più. Rimangono alcuni giornalisti della tv, quelli un po’ sfigati a dire il vero che cercano di strappare quella intervista con un pesce grosso che in tutto il week-end non sono ancora riusciti a farsi rilasciare. Stanno appostati con le telecamere fuori dai bus facendo la punta ai corridori proprio come la facevano i tifosi al mattino. Mentre transito davanti al bus della Sunweb, dalla porta sbuca Tom Dumoulin. È in borghese e indossa un cappellino, i capelli ancora bagnati dopo la doccia. Tiene una mela in mano a cui ha appena dato il primo morso. Cerca a quanto pare di non dare nell’occhio e di tenersi al riparo dai giornalisti mescolandosi agli sfaccendati come me, che vagano tra i bus. Leggo la situazione: di interviste deve averne già avute abbastanza, sta cercando di dileguarsi tra la folla. Ci incrociamo con gli occhi e lui mi sorride con uno sguardo che sembra implorare complicità e riservatezza, intanto svicola veloce verso destra dando le spalle ai giornalisti appostati a qualche metro e fiancheggiando il bus per tutta la sua lunghezza, poi sparisce dietro. Tom non c’è più. I giornalisti che lo attendavano si accorgono del trucchetto e sembrano non perdersi d’animo, di corsa aggirano l’autobus passando dall’altro lato, quello del guidatore. Sono in due: uno tiene il microfono in mano e l’altro la telecamera. Tom Dumoulin oggi si è classificato 50esimo a 6’56” dal primo classificato, mi chiedo, alle 17 e 13' del pomeriggio, cosa ci sarà mai di così importante da chiedergli? Valli a capire certe volte, i giornalisti.

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Svolto a mia volta dietro al bus e Tom Dumoulin me lo ritrovo lì, è stato catturato dai due. Sta in piedi davanti alla telecamera e pazientemente, da bravo ragazzo, risponde alle domande dell'intervista. Nascosta dietro alla schiena, tenendola per il torsolo tra pollice e dito medio nasconde la mela che non ha ancora fatto in tempo a finire. Scatto una foto, è un momento che voglio tenere a mente. Orbito intorno al terzetto e incrocio nuovamente Tom Dumoulin con lo sguardo, lui mi fissa mentre va avanti ubbidientemente a rispondere alle domande dell’intervistatore. Non capisco niente di quello che dicono, parlano in olandese.

Tom Dumoulin, ancora una intervista  (Foto a sinistra: Presse Sport / OffSide)


Quaranta minuti dopo sono finalmente al mio hotel, che è anche quello Lotto Soudal e della Sunweb di Tom Dumoulin, è un grosso centro congressi fuori città. È stato il quartier generale delle due squadre per quasi un mese. Il parcheggio davanti all'entrata è pieno zeppo di ammiraglie, camion e pulmini rossi e neri della Sunweb, i mezzi della Lotto Soudal invece stanno nel parcheggio sul retro. Alcuni meccanici lavorano freneticamente sul camion dei ricambi caricando e scaricando ruote, cassette degli attrezzi e telai di biciclette Cervélo. Tra poco mi potrò finalmente levare le scarpe e le calze bagnate, fare una doccia calda e scendere al bar con gli altri giornalisti stranieri per un aperitivo a base di arachidi e birra belga. La mia preferita è la Kwaremont, una birra bianca chiara che ha l’aroma di frutta matura che finisce con un sentore di arancia e spezie. 6,6% gradi alcolici, che corrispondono esattamente alla pendenza dell'Oude Kwaremont, la mitica salita sulla collina di Kluisberg dove transita il Giro delle Fiandre. 

Mentre sono lì che scarico le mie cose dall’automobile a noleggio, compare di nuovo Tom Doumulin in carne ed ossa. È da solo, in piedi dietro a me che aspetta che io finisca con le mie manovre per infilarsi tra le due automobili e salire su quella verde metallizzato alla mia destra, che evidentemente, è la sua. È una Mini Countryman e sui sedili posteriori intravedo un borsone e un trolley della squadra. Arretro velocemente per lasciargli spazio per passare e ci incrociamo nuovamente con lo sguardo, è la terza volta in meno di un ora. Lui non dice niente ovviamente e anche io non dico niente, ma credo che si ricordi di me e del siparietto ai bus con i due giornalisti-segugi. O forse non si ricorda i niente, chi lo sa? Gli sorrido e con la mano gli faccio segno di accomodarsi. Anche lui mi sorride, tenendo il ciondolo del portachiavi della sua automobile teso tra le due mani, gentilmente mi fa segno di terminare le mie faccende con calma. Scarico lo zainetto alla velocità della luce e mi infilo uno spallaccio in spalla. Chiudo la portiera e arretro: “So, finish, ah? Do you drive back home, now? Then, Giro d’Italia?”. Sul suo volto ho l'impressione passi una nuvola, è una sensazione e dura una frazione di secondo, poi mi sorride di nuovo. È un bel ragazzo Tom Doumulin, alto, se non facesse il ciclista di professione verrebbe da dire che è un po’ troppo magro. La sua testa sembra sproporzionatamente grande rispetto al resto del corpo. È alto 1 metro e 85 e pesa 68kg, quando era uno specialista delle cronometro, prima di diventare uno specialista dei grandi giri, ne pesava 74kg.

“Now I drive home. I like driving”- mi risponde. Poi saluta e sale in auto, senza nemmeno togliersi la giacca in piumino. Accende il motore, arretra prudentemente e si allontana di qualche metro. Mentre è fermo nella corsia del parcheggio vedo che traffica con il cruscotto e lo smartphone, parte il suono della musica che si propaga anche fuori dall’abitacolo, musica ambient. Allaccia la cintura di sicurezza e si mette in movimento. Esce dal parcheggio guidando adagio e prosegue lungo il vialetto alberato. Allo stop in fondo alla strada vedo le luci degli stop illuminarsi. Non arriva nessuno, le strade sono deserte. Rimane lì fermo in mezzo alla strada un tempo incomprensibilmente lungo, poi parte andando verso destra e sparisce alla mia vista dietro un edificio, sempre guidando lentissimamente.

Chissà cosa gli passa per la testa.

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Nel 2018 per Tom Dumoulin, 2° posto al Tour de France dopo il 2° posto al Giro d'Italia (Foto Presse Sport / OffSide)

 

Le aspettative intorno a me sono diventate sempre più grandi. Volevo che tutti fossero felici: la squadra, gli sponsor, i miei compagni, mia moglie, la mia famiglia.

Ho finito per dimenticarmi di me. 

Cosa voglio, io? Voglio ancora essere un ciclista professionista? E se sì, in che modo? In questo momento sento di non saper più bene cosa fare. Per questo motivo, in accordo con il mio team, abbiamo deciso che prenderò un po’ di tempo per me e un periodo di pausa dallo sport del ciclismo". 
- TOM  DUMOULIN

Tutto il meglio per la tua vita, Tom.

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